Quella che Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) chiamava l’astuzia della ragione, e che per il credente altro non è che l’occasione per prestare ascolto alla voce mai assente della Provvidenza, ha fatto sì che nel primo giorno dell’anno quarantennale del 1968 il Signore abbia improvvisamente chiamato a sé Enzo Peserico, collaboratore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dirigente di Alleanza Cattolica, che agli avvenimenti del “Sessantotto” ha dedicato i suoi studi più profondi. Enzo Peserico ci ha insegnato per anni – con evidenti e profonde implicazioni pedagogiche – che il Sessantotto nasceva da un’esigenza a suo modo comprensibile: la rivolta di molti giovani contro la “società dei consumi” che, per quanto fosse capace di soddisfare molti bisogni materiali, sostanzialmente deludeva rispetto a quell’attesa di felicità che continuamente prometteva, ma che la pura moltiplicazione del consumo non poteva dare.
Delusa però dai fondamenti retorici laicisti proposti dalla cultura dominante, ma nello stesso tempo certamente incapace di recuperare verità tradizionali in ordine alla fede e alla ragione (le stesse frange “di destra” e cattoliche che partecipano al movimento degli studenti “sessantottino” rimanevano subordinate, come mostrava Peserico, alla sua “ala marciante”, che era antireligiosa e antitradizionale), la rivoluzione culturale del 1968 si sfoga in due direzioni. Secondo lo schema proposto dallo studioso milanese, o si presenta come rivoluzione in interiore homine (“la vita come rivoluzione”), che dissolve l’individuo scollegandolo da ogni legame – con Dio, con gli altri e alla fine anche con se stesso, fino all’autodistruzione tramite la droga o il suicidio –, ovvero come rivoluzione politica (“la vita per la rivoluzione”) che tuttavia (benché s’intrecci con il tentativo di recupero da parte del marxismo, e con trame più o meno torbide che cercano di manipolarla) manca di un progetto razionale compiuto e spesso diventa violenza per la violenza e autodistruzione non più individuale, nella tossicodipendenza, ma collettiva, nel terrorismo.
Le due tendenze confluiscono in Italia nel “secondo Sessantotto” del 1977, e nell’Europa dell’Est nei movimenti studenteschi – che scoprono insieme, e confusamente, la droga, il teppismo e la violenza – che turbano il passaggio al post-comunismo dopo la caduta del Muro di Berlino e dell’Impero Sovietico fra il 1989 e il 1991. Le analisi di Enzo Peserico mostrano una singolare – e, per chi ha avuto la fortuna di fruirne per anni, provvidenziale – convergenza con il recente insegnamento di Papa Benedetto XVI, secondo cui “la cesura del ‘68” è insieme “la crisi della modernità” e “l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente”: una “rivoluzione culturale” che vorrebbe “ricominciare da zero in modo assolutamente nuovo”; ma dopo la prima rottura del 1968 c’è anche “la seconda cesura nell’89” con “il crollo dei regimi comunisti” nell’Europa dell’Est, la cui “risposta non fu il ritorno alla fede, come si poteva forse aspettare” ma “lo scetticismo totale, la cosiddetta post-modernità” secondo cui “niente è vero”, anzi la stessa nozione di verità va rifiutata perché “è intollerante”. Queste rotture configurano “una caduta, potremmo dire, nel nichilismo” che in qualche modo chiude un plurisecolare processo rivoluzionario europeo mentre lo porta alle estreme conseguenze (Benedetto XVI, Incontro con il clero delle Diocesi di Belluno-Feltre e di Treviso, Auronzo di Cadore, 24-7-2007).
Ridurre tuttavia il magistero culturale e morale di Enzo Peserico alla sua mirabile analisi di tutto quanto ruota intorno al Sessantotto – sul quale aveva appena completato la stesura di un volume, di prossima pubblicazione – sarebbe veramente fargli torto. Peserico è stato soprattutto un grande educatore e formatore di giovani, di adulti e di famiglie: la morte lo ha colto a conclusione dell’ennesimo incontro per famiglie organizzato a Re, in Piemonte, in occasione del Capodanno. Questi giovani, queste famiglie, questi amici sono ora giustamente sgomenti, e piangono il maestro e il compagno di tante battaglie stroncato nel fiore degli anni, quando tanto aveva ancora da dare.
Diventa allora, per chi scrive, obbligatoria una nota personale. Senza Enzo Peserico non ci sarebbe stata la svolta che mi ha portato – dopo molti libri tecnici di sociologia e storia delle religioni – a “scendere in campo” con opere di taglio esplicitamente apologetico e scrivere Il dramma dell’Europa senza Cristo e il suo seguito, Il segreto dell’Europa, che Enzo non vedrà perché esce in questi giorni. Questi volumi nascono da un suo invito a presentare in forma sistematica e seminariale i grandi temi del magistero di Benedetto XVI, e a predisporre libri “da fare” che potessero essere schemi per riunioni, incontri, gruppi di studio. Da lui – non da me – è nato un movimento di cui questi testi sono strumento ma che da Enzo è stato pensato come strategia per la battaglia delle idee del XXI secolo.
La mia ultima conversazione con lui riguarda il rammarico per non avere potuto inserire nell’ultimo volume, Il segreto dell’Europa, già in stampa al momento della pubblicazione dell’enciclica, una riflessione sulla Spe salvi. Enzo, che aveva letto i miei primi commenti sul tema, mi esortava a mostrare come il grande affresco della crisi dell’Europa non dovesse essere disgiunto dalle riflessioni sui Novissimi, quasi che queste fossero solo una clausola di stile dove il Papa, dopo tutto, fa il suo mestiere. Come non pensare a questa conversazione dopo la tragedia che ha colpito Enzo il 1° gennaio 2008? Nella Spe salvi il Pontefice afferma che la stessa espressione “vita eterna” oggi è inadeguata e rischia di non essere capita: una vita eterna ci sembra una vita imbalsamata, sempre uguale a se stessa, noiosa, non più produttiva. Invece, la vita del Paradiso è la “vera vita”, ed è anzi più vera della vita quotidiana in cui si compra, si vende, ci si arrabbia e purtroppo talora anche si pecca e si muore. Una vita che brilla talora in momenti speciali della nostra esistenza, e che ci appare allora come qualitativamente assai superiore a tutto quanto possiamo sperimentare quaggiù. Questa è ora la vita cui Enzo si avvia.
Ma l’insegnamento importante della Spe salvi – tutta tesa a rispondere all’obiezione delle ideologie secondo cui i cristiani, occupandosi della salvezza dell’anima, poco fanno contro le ingiustizie della Terra – è che questa vita eterna non è la beatitudine oziosa che immaginava qualche filosofo greco. È una vita ricca, piena, attiva, e a suo modo anche “sociale”. Da questa realtà che solo Dio davvero conosce e ordina Enzo continua ora la battaglia che combatteva in vita. La continua in un modo certo misterioso, ma che sappiamo per fede essere efficace. A chi – e io sono fra questi – si chiede sgomento “Perché?”, la Spe salvi che Enzo aveva subito amato aiuta a rispondere che l’Aldilà non è il luogo della fine ma dell’inizio, non dell’isolamento beato dalle vicende umane ma dell’operare per una giustizia che solo dal suo compimento escatologico trae la certezza della sua possibile restaurazione. Con umiltà, con timore e tremore rispondo allora anzitutto ai più giovani, cui Enzo ha dato tutto se stesso, che il Signore – che vede cose che noi neppure immaginiamo, e le cui vie non sono le nostre vie – ha forse ritenuto che di Enzo ci fosse bisogno, più ancora che in Terra, nella grande opera d’instaurazione della giustizia che misteriosamente ma sicuramente si compie in Cielo oltre il velo della vita e della morte. Il distacco non ne è reso meno duro: ma la fiducia nel Signore che tutto dispone per il trionfo della verità e della giustizia ci permetterà forse di affrontarlo superando la tentazione della disperazione, che è umana ma, come il Papa ci ricorda, non è mai cristiana. Certi di ritrovare Enzo, testimone della speranza che salva, non solo al termine della nostra vita ma da ora e da subito accanto a noi, con una presenza che nella comunione dei santi non è illusione, sentimento o fantasia, ma vita e realtà.