Gentili Signore Signori,
Mi è stato proposto di collocare l’enciclica Caritas in veritate nel contesto del pensiero e del magistero di Benedetto XVI. La sua prima enciclica, Deus caritas est, sulla teologia della carità, conteneva indicazioni sulla dottrina sociale (n. 26-29). Ora siamo di fronte ad un testo dedicato interamente a questa materia. Ma balza agli occhi che il concetto centrale resta la caritas intesa come amore divino manifestato in Cristo. Essa è la fonte ispiratrice del pensare e dell’agire del cristiano nel mondo. Alla sua luce, la verità diventa “dono…, non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta” (n. 34). Non può venire ridotta a semplice volersi bene umano o a filantropia. Nel mio intervento desidero prima commentare il compito della dottrina sociale dentro la missione della Chiesa, e poi toccare un suo principio: la centralità dell’uomo.
1. La dottrina sociale nella missione della Chiesa
1.1. Non è la Chiesa a creare una società giusta.
La Chiesa è stata costituita da Cristo per essere sacramento di salvezza per tutti i popoli (Lumen gentium 1). La sua missione specifica la strappa ad un malinteso ricorrente: secolarizzarla fino a farne un agente politico. La Chiesa ispira, ma non fa politica. Riprendendo la Populorum Progressio, l’enciclica di oggi afferma chiaramente: “La Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire e non pretende minimamente d’intromettersi nella politica degli Stati” (n. 9). La Chiesa non è un partito politico, né un attore politicizzante. Guai a chi riducesse la missione della Chiesa ad essere un movimento intramondano di pressione per ottenere risultati politici. Lo stesso Card. Ratzinger si è opposto negli anni ‘80, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, nel confronto con alcune teologie della liberazione, a questo possibile malinteso (Instructio del 6.8.1984).
Questo implica a sua volta che la dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via”, cioè un programma politico da realizzare per giungere ad una società perfetta. Chi la pensa così rischia paradossalmente di preparare una teocrazia, dove i principi validi nel discorso della fede diventano tout court principi da applicare al vivere sociale, sia per chi crede, sia per chi non crede, abbracciando anche la violenza. Di fronte a tali errori, la Chiesa salvaguarda, insieme alla libertà religiosa, la giusta autonomia dell’ordine creato, come già il Concilio Vaticano II ha assicurato.
1.2. La dottrina sociale della Chiesa è un elemento dell’evangelizzazione
In positivo, l’enciclica Caritas in veritate esprime il significato della dottrina sociale della Chiesa in diverse parti, per es. al n. 15, quando ne va del rapporto tra evangelizzazione e promozione umana, partendo dalla Populorum Progressio. Mentre finora l’accento della dottrina sociale era piuttosto sull’azione per promuovere la giustizia, ora si avvicina in senso lato alla pastorale: la dottrina sociale è affermata elemento dell’evangelizzazione. Cioè l’annuncio di Cristo morto e risorto che la Chiesa proclama lungo i secoli ha una sua attualizzazione anche rispetto al vivere sociale. Questa affermazione contiene due aspetti.
Non possiamo leggere la dottrina sociale fuori dal contesto del vangelo e del suo annuncio. La dottrina sociale, come mostra questa enciclica, nasce e si interpreta alla luce della rivelazione.
D’altra parte, la dottrina sociale non si identifica con l’evangelizzazione, ma ne è un elemento. Il vangelo riguarda il vivere dell’uomo anche in relazioni sociali e in istituzioni che da queste relazioni nascono, ma non si può restringere l’uomo al suo vivere sociale. Questo pensiero è stato ribadito con vigore da Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio (n. 11). E dunque la dottrina sociale della Chiesa non può sostituire tutta l’opera di annuncio del Vangelo nell’incontro da persona a persona.
1.3. La dottrina sociale: non senza rivelazione
Un breve percorso storico: a motivo della rivoluzione industriale (19.mo secolo) e delle sue conseguenze nefaste il monito della Chiesa chiedeva allo Stato urgentemente una reazione per ristabilire la giustizia sociale e la dignità della persona in termini filosofici. Più tardi, con la Pacem in terris, Giovanni XXIII attinge maggiormente all’orizzonte della fede e parla del peccato e del suo superamento mediante l’opera divina di salvezza. Giovanni Paolo II ha introdotto poi il concetto di “strutture di peccato” e applica la salvezza anche alla lotta contro la miseria umana. La sua Sollicitudo rei socialis integrava la dottrina sociale nella teologia morale: “Essa appartiene, perciò, non al campo dell’ideologia, ma della teologia, e specialmente della teologia morale” (n. 41). Da questo passo la dottrina sociale si muove chiaramente nel campo della teologia. I principi della dottrina sociale non sono dunque rimasti meramente filosofici, ma hanno la loro origine in Cristo e nella sua parola. Nella Deus caritas est, Benedetto XVI scrive che la fede purifica la ragione e la aiuta così a creare un ordine giusto nella società; qui si colloca la dottrina sociale (cfr. 28 a).
Essa si muove dunque appoggiandosi ad un discorso accessibile ad ogni ragione, e perciò sul fondamento del diritto naturale. Ma riconosce la sua dipendenza dalla fede.
La nuova enciclica tratta più esplicitamente e più decisamente tutto ciò, ponendosi sul terreno della carità. Insegna che la “carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa” (n. 2). La carità che qui si intende è quella “ricevuta e donata” da Dio (n. 5).
L’amore di Dio Padre Creatore e del Figlio redentore, effuso in noi dallo Spirito santo permette il vivere sociale dell’uomo in base a certi principi. Afferma per lo sviluppo la “centralità … nella carità” (n. 19). La sapienza - si scrive anche - capace di orientare l’uomo, “deve essere ‘condita’ con il ’sale’ della carità” (n. 30). Queste semplici - apparentemente scontate - affermazioni nascondono delle implicazioni importanti. Slegata dall’esperienza cristiana, la dottrina sociale diventa esattamente quella ideologia che Giovanni Paolo II insegnava non essere. Oppure appunto un manifesto politico senz’anima. La dottrina sociale impegna invece in primo luogo il cristiano a “incarnare” la sua fede. Come scrive l’enciclica: “La carità manifesta sempre anche nelle relazioni umane l’amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico ad ogni impegno nel mondo” (n. 6). Alla domanda spesso formulata: “Che contributo dà il cristiano alla edificazione del mondo?”, risponde la dottrina sociale della Chiesa.
2. Un approccio antropocentrico
Il cuore della dottrina sociale resta l’uomo. Ho già accennato che in una prima fase l’attenzione di questa disciplina era piuttosto orientata sulle situazioni problematiche della società: regolamentazione del lavoro, accesso ad un equo salario, rappresentanza dei lavoratori. Più tardi queste problematiche sono state affrontate ad un livello internazionale: lo squilibrio tra ricchi e poveri, lo sviluppo, i rapporti internazionali. Con l’accentuazione teologica si affaccia più fortemente con Giovanni XXIII la domanda circa la ricaduta di tutto questo sull’uomo - siamo ad una seconda fase nella evoluzione di questa disciplina. Giovanni Paolo II ha rafforzato ulteriormente questa consapevolezza centrando sul problema antropologico la riflessione sociale. Questo aspetto è fortemente presente nel documento di oggi: “Il primo capitale da salvaguardare e da valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità (n. 25); “La questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n. 75). Il progresso, per essere tale veramente, deve cioè far crescere l’uomo nella sua completezza: troviamo nel testo riferimenti all’ambiente, al mercato, alla globalizzazione, alla questione etica, alla vita, alla cultura, cioè ai diversi ambiti nel quali l’uomo esplica la sua attività. Questo scopo rimane un’eredità preziosa della dottrina sociale dal suo inizio. Ma più a fondo, la questione antropologica implica che si deve rispondere ad una domanda centrale: quale uomo vogliamo promuovere? Possiamo considerare vero sviluppo uno sviluppo che chiude l’uomo in un orizzonte intraterreno, fatto solo di benessere materiale, e che prescinde dalla questione dei valori, dei significati, dell’infinito cui l’uomo è chiamato? Può una civiltà sopravvivere senza riferimenti fondanti, senza sguardo all’eternità, negando all’uomo una risposta ai suoi interrogativi più profondi? Può esserci vero sviluppo senza Dio?
Nella logica di questa enciclica si affaccia dunque prepotentemente un ulteriore passaggio, forse una terza fase della riflessione della dottrina sociale. Non è un caso se si è posta la carità come punto di snodo: dunque la carità divina cui risponde come atto umano una virtù teologale, lo dicevo all’inizio. L’uomo allora non si pone solo come obiettivo di un processo, ma come il soggetto di questo processo. L’uomo che ha conosciuto Cristo si fa attore di cambiamento perché la dottrina sociale non resti lettera morta. Scrive Benedetto XVI: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello al bene comune” (n. 71). Qui siamo in diretta continuità con l’enciclica Deus caritas est, che, nella sua seconda parte, ha considerato le caratteristiche di chi opera negli organismi caritativi. E lo sguardo si amplia al mondo della vita pubblica, in cui assistiamo spesso, a nord e a sud, a fenomeni noti a tutti, e che impediscono la crescita di un popolo: la corruzione e l’illegalità (cfr. n. 22), la sete di potere (cfr. DCE 28). Il “peccato delle origini”, come ricorda il nostro testo al n. 34, impedisce in molti luoghi la costruzione della società. Anche in chi le guida. Non si può affrontare la questione sociale senza riferirsi alla questione etica. L’enciclica fa riferimento all’uomo nuovo in senso biblico (n. 12). Non c’è società nuova senza uomini nuovi. La dottrina sociale non rimane carta o ideologia solo se ci sono cristiani disposti viverla nella carità, con l’aiuto di Dio. Aspetta autenticità da parte di tutti gli attori. Formula, senza giri di parole: “Lontano da Dio, l’uomo è inquieto e malato” (n. 76). E’ altamente significativo che l’ultimo numero dell’enciclica (79) è dedicato alla preghiera e alla necessità della conversione: Dio rinnova il cuore dell’uomo perché questi possa dedicarsi a vivere nella carità e nella giustizia. Perciò i cristiani non stanno semplicemente alla finestra a guardare o a protestare, contagiati dalla moderna cultura della denuncia (Kultur des Einspruchs), ma si lasciano convertire per costruire, in Dio, una cultura nuova. Questo vale anche per i membri della Chiesa, singoli o associati.
3. Il progresso
Voglio finire con una considerazione circa il concetto di progresso. Paolo VI - lo ricorda anche questa enciclica - ne ha parlato in forma articolata (Populorum Progressio, 21). Purtroppo si è pensato spesso che la crescita umana è come indipendente rispetto alla questione della fede, cosicché da una parte ci sarebbe la promozione umana, dall’altra l’annuncio della fede come ambiti separati. Ma nella Populorum progressio il progresso, cristianamente inteso, culmina nella fede e nella carità in Cristo. Oltre ad unificare le due dimensioni, questo documento introduce un ulteriore elemento nel concetto di progresso: la speranza (n. 34).
Come ribadiva Benedetto XVI nella Spe salvi, la speranza non può essere però quella di un progresso che costruisca per sempre un regno di benessere quaggiù (n. 30), perché questo non fa i conti con la libertà umana (n. 23-24): il fondamento della speranza cristiana invece è il dono di Dio (n. 31). Dunque la speranza ci aiuta a non chiudere il progresso nella costruzione di un regno di quaggiù, ma ci apre al dono: in Dio trova coronamento il desiderio di bene dell’uomo. E’ sempre in questa relatività che la Chiesa formula la sua dottrina sociale e i cristiani trovano in essa ispirazione per il loro impegno in questo mondo.
Signore e signori,
l’interesse per l’enciclica Caritas in veritate è grande. Letto bene il testo di Benedetto XVI, è una luce per la società e non da ultimo per noi cristiani.
Gli altri interventi durante la conferenza stampa di presentazione dell’Enciclica:
- intervento dell’Em.mo Card. Renato Raffaele Martino;
- intervento di S.E. Mons. Giampaolo Crepaldi;
- intervento del Prof. Stefano Zamagni.