“Obbedienza ai segni del reale: questa è la prima regola morale” (Ch Péguy).
Possiamo dire che questo è stato il programma di vita di Enzo Peserico, alla cui memoria il Prof. Tursi ha voluto dedicare questo convegno, gesto di cui sono profondamente onorata e riconoscente, considerando i 20 anni nei quali sono stata legata ad Enzo come moglie e come partner professionale.
Ero laureanda in Statale in diritto del lavoro quando conobbi Enzo, che dopo la tesi in filosofia del diritto “Antropologia del terrorismo e norma giuridica” - tema che ripreso anni dopo ha portato alla pubblicazione del libro “Gli anni del desiderio e del piombo - 68 terrorismo e rivoluzione” consegnato alla stampa il 1° gennaio 2008, poche ore prima di morire - era diventato collaboratore alla cattedra di diritto del lavoro della facoltà di Giurisprudenza in Cattolica, allora tenuta dal Prof. Mengoni.
La collaborazione con la cattedra in Cattolica continuò sino alla fine, prima con il Prof. Treu e poi con il Prof. Napoli, inizialmente come cultore della materia, poi come docente nel Master di Consulenza del Lavoro e Direzione del Personale. A questa si affiancò, dal 2002, la collaborazione a Scienze Politiche qui in Statale alla cattedra di Diritto del Lavoro, parimenti per alcune docenze nel Master in consulenza del lavoro e amministrazione del personale.
L’attività lavorativa si svolgeva però in misura preponderante, più che nell’ambito universitario, nella consulenza legale e gestionale del lavoro. Nel ‘91, dopo un’esperienza molto significativa prima in Assolombarda e poi alla Direzione Relazioni Industriali di una multinazionale francese, entrò in Studio Pagani, che già esisteva (dal’68!) ma che Enzo contribuì significativamente a sviluppare quale comunità professionale forte, feconda, entusiasta.
Decise di lasciare l’azienda e di iniziare l’attività professionale di consulente del lavoro in concomitanza con l’entrata in vigore della L. 223/91.
Il desiderio di approcciare il mondo delle relazioni industriali e lo stesso rapporto con il Sindacato con uno sguardo nuovo, diverso, personale, rispettoso della dignità delle singole persone coinvolte in processi di mobilità, riorganizzazione e ristrutturazione determinò la scelta, e ha poi sempre costituito un tratto caratteristico del suo impegno professionale.
Ha detto bene il Prof. Napoli nella sua breve ma significativa testimonianza al funerale di Enzo, quando ha ricordato che la multiforme vita professionale di Enzo era alimentata da due filoni culturali: il Diritto del lavoro e delle Relazioni Industriali che studiava in sé, al di là delle necessità professionali; la Dottrina Sociale della Chiesa che ha rappresentato il cuore della sua formazione, non solo professionale.
Per svolgere il compito che oggi mi è stato assegnato - introdurre la figura personale a cui questo Convegno è dedicato - ma anche mostrare i punti di convergenza tra le auspicabili riforme del lavoro (e non solo) per le piccole imprese e i principi di Dottrina Sociale che con passione dedizione Enzo ha studiato, amato, diffuso ed applicato, mi è comodo richiamare tre fatti accaduti in rapida successione il primo gennaio 2008.
Il primo evento che voglio richiamare è il memorabile intervento intitolato “La sfida della laicità” che Enzo tenne in occasione di un incontro intitolato “Famiglia diventa ciò che sei”.
Il suo intervento partiva da alcune premesse relative alla crisi della famiglia in Italia, e rilevava che:
- i giovani non si sposano più per scelta, per mancanza del desiderio di costruire e di vivere per qualcosa e qualcuno dopo di sé, oltre a sé;
- non si fanno più figli, contribuendo così al triste primato del tasso di natalità più basso del mondo, con un’Italia che nel corso di una generazione dimezzerà la popolazione.
E non si fanno più figli perché non c’è più fiducia nell’uomo, perché è in crisi l’educazione e ai figli non si sa più che valori trasmettere, perché le coppie hanno altre priorità meno costose, meno drammatiche, meno impegnative che mettere al mondo figli.
Apro una parentesi. Questo del calo demografico non è solo un problema dell’INPS, che non sa più come pagare le pensioni.
È un problema di identità culturale, che rischia di perdersi, è una società una cultura che rischia di implodere. È un film già visto quando è imploso l’impero Romano di occidente.
E’ la”dolce morte della nazione italiana”, come la chiama Antonio Fazio, ex governatore della Banca d‘Italia, nel suo ultimo libro “Globalizzazione. Politica economica e Dottrina Sociale”.
Ma è anche un gravissimo problema economico. Lo ha analizzato puntualmente il vice Direttore della Banca di Italia, Ignazio Visco, in un intervento all’Università di Perugia del 28 ottobre 2008, dal titolo “Invecchiamento della popolazione, immigrazione, crescita economica”.
La denatalità (il livello medio di fertilità delle donne nazionali resta all’1.25 figlio per donna, sale a 1,5 ad opera delle donne immigrate, più giovani e più fertili) e la maggiore longevità (la speranza di vita media nel 2030 sarà di 85 anni, oggi è di 80, nel 2050 di 88, il trend condiviso dai demografi - che oramai parlano di rischio di longevità anziché di speranza di vita - è di un incremento di 2 anni ogni decennio) determineranno un rapporto tra popolazione attiva e popolazione dipendente da quella attiva dell’85% rispetto all’attuale 50%, e il crollo, a bocce ferme rispetto agli attuali regimi pensionistici, del tasso di occupazione della popolazione (cioè del tasso di occupati sul totale della popolazione), con gravi ripercussioni sulle capacità di crescita del sistema economico nel suo complesso.
Una risposta strutturale, intelligente a questo problema gravissimo richiede l’incremento della produttività del lavoro (e quindi della sua qualità), l’incremento della qualità del capitale umano (istruzione, formazione, educazione), l’allungamento ahimè, ahinoi, della vita lavorativa, e l’individuazione, con riferimento all’indispensabile lavoro femminile, di un quadro normativo e di politiche del lavoro che favorisca un’equilibrata alternanza tra tempi di lavoro e tempi di sosta che consenta alle famiglie di avere figli senza angoscia.
Poste le premesse sulla crisi della famiglia, ricordava dunque Enzo nel suo intervento del 1° Gennaio 2008 che solo una sana laicità - distinta sia dal fondamentalismo religioso che dal laicismo relativista - può contribuire a ridare speranza e a rinnovare culturalmente e spiritualmente l’Italia, sostenendo principi che possano essere condivisi da tutti coloro che hanno a cuore il nostro popolo, in quanto radicati nella nostra cultura, nella nostra storia, nella nostra eredità morale.
Quindi individuava la risposta ai bisogni dell’uomo post-moderno nella dottrina sociale della Chiesa, con i valori fondamentali e più che mai attuali del diritto alla vita dal concepimento sino alla morte naturale, della famiglia fondata sul matrimonio, della libertà di educazione, dello sviluppo di un’economia al servizio della persona guidato dai principi di sussidiarietà e solidarietà.
In particolare, considerato il tema del convegno, possiamo qui ricordare il pensiero classico della DS sul tema della proprietà privata e sul lavoro.
La proprietà privata è sì un diritto naturale, da considerarsi quale prolungamento della libertà umana. Tutela l’autonomia personale e familiare.
Ma la Proprietà Privata per sua natura ha anche una funzione sociale, perché si fonda sul principio della comune destinazione dei beni.
La proprietà privata, che si acquista col lavoro (magari di generazioni), deve servire al lavoro.
Il capitale è nato dal lavoro e porta su di sé i segni del lavoro umano.
Allora si capisce come l’impresa sia una comunità di uomini (Società di capitali, ma anche Società di persone) che persegue il soddisfacimento dei propri bisogni economici (diritto alla giusta retribuzione) ma sia anche un gruppo al servizio dell’intera Società (in particolare nell’economia globalizzata, come le recenti sfavorevoli esperienze finanziarie testimoniamo).
Contro la vecchia falsa alternativa tra socialismo reale (negazione del diritto di proprietà privata) e capitalismo liberista (profitto unica logica) occorre rimettere l’uomo al centro, in una economia di mercato in cui capitale e lavoro dell’uomo siano, nella concretezza del processo produttivo e più ampiamente del processo economico, in posizione di complementarietà.
Non sono solo parole, concetti astratti, ma principi su cui, oggi e domani più che mai, si costruisce un’impresa forte, dinamica, competitiva.
A questo proposito desidero richiamare un breve brano dell’intervista a François Michelin nel corso del convegno “Il lavoro, l’impresa e l’ideale” del marzo 2006 presso la Facoltà di Economia di Torino il 31.3.2006.
“Bisogna avere operai che si preoccupano dell’azienda e che amano il progresso, un cliente pone un problema e bisogna trovare sempre nuove soluzioni. Alla Michelin abbiamo lasciato da parte la nozione di “definitivo”. E ancora: “Dalla realtà non si smette mai di imparare, così come dagli uomini: bisogna rischiare sugli uomini, senza definirne prima le qualità guardando al loro diploma. E’ essenziale la persona che ha il diploma. Se uno è umile, appassionato alla realtà e sa crescere andrà lontano. Vi dicevo prima che ogni persona è unica: tutto il problema della gestione di un’azienda sta nello scoprire le capacità di ciascuno. Conoscere gli uomini è essenziale.”
“Bisogna spiegare loro la verità delle cose. Nel caso specifico, ad esempio, non si insegna che l’azienda è fatta da tre pilastri: il capitale del padrone che rischia, i dipendenti che lavorano e i clienti che esigono qualità. Siamo tutti produttori e consumatori al contempo, il cliente è insieme fuori e dentro l’azienda. Tutti pensano al padrone come a un uomo potentissimo: ma se quello che faccio non piace ai clienti cosa devo fare? Minacciarli? Se l’azienda non diventa un luogo in cui un uomo possa crescere, non serve e i migliori se ne andranno. Se ai giovani si spiegasse che sarà dura, ma che questa è la vita, forse le cose non andrebbero così male come adesso.”
Queste considerazioni valgono a maggior ragione per la piccola impresa. In un convegno di novembre 2001 dedicato alla figura di Giuseppe Toniolo, economista cattolico, docente universitario, che nel 1876 ha scritto un saggio di attualità straordinaria anche ai giorni nostri sul ruolo della piccola impresa, il segretario generale di confartigianato, Francesco Giacomini, riassumeva così uno dei passi più significativi del libro:
“… non valgono i presidi dell’arte professionale, né la migliore struttura economica della Nazione, né le attitudini d’impegno laddove non regga il valore morale della classe produttiva, cioè il valore etico.”
… omissis
“Il Toniolo, guardando alle leggi interne all’impresa, annota come la Fabbrica lavori esclusivamente per l’interesse del capitale e misuri tutto con esatti indici economici, “solo la forza di ciò stabilendo l’espandersi o il restringersi della produzione”, mentre afferma che nella piccola impresa “altri compensi si intrecciano al reddito industriale”. Ecco l’elemento morale che soverchia l’elemento economico e fa sì che, anche nelle condizioni avverse, “il telaio continui a battere fino all’estremo”.
2. Il secondo fatto che si verificò il primo gennaio di quest’anno fu la consegna al curatore del libro della stesura finale del Suo libro “Gli anni del desiderio e del piombo - 68 e terrorismo”.
Un tema a cui ha dedicato molte energie e molto tempo. Di questo libro, per ragioni di tempo, mi limito a ricordare un solo pensiero.
E’ svelata l’eterogenesi dei fini della contestazione del ‘68, che anziché rispondere costruttivamente all’istanza culturale di cambiamento degli stili di vita della visione laico-borghese che si era imposta nella società, ha negato il principio di autorità nelle istituzioni, in famiglia, nel modo del lavoro, ha distrutto la figura del padre, il senso di responsabilità e di giustizia, il valore dei corpi sociali intermedi, la stessa idea di ragione capace di conoscere la realtà derivante dall’unità del pensiero greco e cristiano, ed è diventato avanguardia di quella tecnocrazia che diceva di voler combattere, e sostenitore del soggettivismo e dell’individualismo a tutti i costi, dei miti del benessere del denaro e del successo senza regole morali, del nichilismo laicista.
Noi oggi possiamo dare una “lezione italiana” all’Europa, al mondo occidentale, e affrontare la post - modernità attraverso il “ritorno al reale” del’uomo europeo come persona portatrice di valori che si muove e vive nella famiglia, nell’impresa, nei corpi intermedi, nelle istituzioni.
3. Il terzo evento che ha segnato per noi della Fondazione in modo indelebile il primo giorno del 2008 è la improvvisa scomparsa di Enzo. Un fatto inatteso, che ha suscitato molta emozione ed ha attirato l’attenzione su una figura di laico, profondamente cristiano, che ha vissuto tutta la propria vita, professionale, amicale, familiare, nella prospettiva della costruzione del bene comune. Un “contemplativo in azione”, insomma, per usare un’espressione a lui molto cara.
Due parole sulla Fondazione Enzo Peserico
La fondazione ha un sottotitolo, “Fede e Ragione, Persona e Comunità”. L’accostamento di questi due binomi, determina come le coordinate cartesiane sul cui equilibrio si è retto lo sviluppo della civiltà cattolica europea.
Fede e ragione, Fides et Ratio, “sono come le due ali con le quali lo spirito umano si innalza verso la contemplazione della verità”. Il binomio ha il significato di ripresentare una ragione capace di verità, di capire il senso delle cose, di dare delle risposte all’uomo, fornendo una alternativa ad una visione della ragione soggettivista e relativista, che porta l’uomo alla disperazione dell’assenza di significato di sé e del mondo.
Persona e comunità: la persona non è un individuo, una monade che si relaziona agli altri solo se è di temperamento socievole. La relazionalità fa parte della dimensione ontologica dell’uomo.
Se la Ragione è ciò che definisce l’essenza dell’uomo, capacità di avere presente la realtà, quindi di entrare in comunione con la realtà, allora vuol dire che la dimensione comunitaria essa stessa deriva da questa dimensione essenziale dell’uomo che è la Ragione.
L’uomo è in relazione dall’inizio, non è un individuo, che sta in autonomia rispetto agli altri.
Cosa centrano dunque queste riflessioni con la Fondazione Enzo Peserico. E ancora: perché la Fondazione Enzo Peserico.
Nei Principi Ispiratori dello Statuto leggiamo che la Fondazione “si ispira alla figura di Enzo Peserico della quale intende onorare la memoria, perpetuare il ricordo e proseguire l’azione con esplicito richiamo al suo costante e totale riferimento al magistero della Chiesa Cattolica ed in particolare alla Dottrina sociale della Chiesa”.
Posso dire, senza troppo imbarazzo, che Enzo aveva capito il significato della relazione tra fede e ragione non permettendo che rimanesse una relazione astratta valida solo sul piano intellettuale, e che se la ricerca della verità avviene nell’ambito di una comunità, e di una sana pluralità, potrà beneficiare della fecondità e dell’arricchimento che derivano dalla capacità di ascolto e di confronto, e di reciproco affidamento all’altro che questo genera.
Fede e Ragione, Persona e Comunità sono quindi temi da capire e da vivere.
Allora la Fondazione vuole non solo fare memoria di ciò che è stato iniziato. Certo la memoria è la base per avere coscienza delle proprie radici, per trattenere la propria storia nell’essere.
Ma se ci si ferma al ricordo, si rischia di cadere nella malinconia, e, come dice Hannah Arendt proprio a proposito del ‘68 “Il ricordo malinconico è lo strumento migliore per dimenticare del tutto il proprio destino”.
La Fondazione vuole invece dare concretezza a questi grandi valori, attraverso la raccolta degli scritti e relazioni di Enzo, la promozione di incontri, seminari e corsi.
Ma soprattutto nelle attività che farà vuole, proseguire questo esempio, perchè dalla concretezza di questa storia personale, anche se troppo breve, nasca una cultura e un’esperienza della speranza.
E concludo veramente con l’ultima citazione, di tale Oreste August Brownson, poco conosciuto pastore protestante americano del 19° secolo, che vuole essere un monito per tutti noi che abbiamo a cuore il bene comune.
“Non domandarti ciò che vuole la tua epoca ma domanda ciò di cui ha bisogno.
Non ciò che essa ricompenserà ma ciò senza la quale essa è destinata a perire e trova la tua ricompensa nella consapevolezza di aver fatto il tuo dovere e soprattutto nella constatazione che tu sei stato chiamato a soffrire in una certa misura per il genere umano”.
Sabrina Pagani
Presidente Fondazione Enzo Peserico
Consulente del Lavoro
Partner Studio Associato Pagani
Milano, 3 novembre 2008